Un secolo che voleva misurare l’anima
Il XIX secolo fu l’età del ferro e della certezza. Il trionfo della scienza sembrava aver dissolto le ombre: non vi era domanda che la ragione non potesse affrontare, non vi era mistero che l’osservazione non potesse sezionare. La medicina affondava il bisturi nei corpi, la sociologia negli istinti, la fisiognomica nei tratti del volto. In questa temperie nasce e si sviluppa la figura di Cesare Lombroso, medico, militare, antropologo, psichiatra, professore, visionario, convinto – come molti suoi contemporanei – che anche il male potesse essere spiegato, classificato, previsto.
La sua non fu solo una ricerca scientifica: fu l’ambizione positivista di trasformare la società, riformandola dalla radice biologica, partendo non più dall’anima, ma dal cranio.
Il delinquente nato: biologia e devianza
La teoria che rese celebre (e poi famigerato) Lombroso nacque nel 1870, durante l’autopsia del brigante calabrese Giuseppe Villella. Osservando un’anomalia cranica – una fossetta occipitale simile a quella di certi primati – Lombroso ebbe un’intuizione che trascrisse quasi come una rivelazione:
«Vidi come in un lampo il delinquente nato, un tipo antropologico distinto da quello dell’uomo normale…»
Da lì sviluppò la teoria dell’“uomo delinquente”, presentata nel 1876, secondo cui alcuni individui presenterebbero segni fisici atavici, biologicamente predisposti alla devianza. Arcate sopraccigliari pronunciate, mandibole larghe, orecchie sporgenti, anomalie facciali e craniche erano, per Lombroso, tracce visibili di una regressione evolutiva: l’uomo tornato bestia, incapace di adattarsi alla civiltà.
A partire da questa idea, mise insieme una mole immensa di osservazioni, calcoli, illustrazioni, rilievi cranici, ritratti fotografici, cercando una tassonomia del crimine, un’“anatomia morale” che rendesse possibile la prevenzione sociale. Non il peccato, ma la patologia.
Scienza e ideologia: le ambiguità del metodo
È indubbio che le teorie lombrosiane siano oggi smentite dalla genetica, dalla neuropsichiatria e dalle scienze umane. Eppure è troppo facile – e troppo comodo – ridurre Lombroso a una caricatura, un folle collezionista di crani. Al contrario, egli fu uno studioso serio, metodico, instancabile, immerso nella cultura scientifica del suo tempo.
Il problema non fu l’assenza di metodo, ma l’eccesso di fiducia in un metodo che pretendeva di spiegare l’intero comportamento umano attraverso misurazioni fisiche, come se la complessità morale, sociale, affettiva potesse essere compressa in tabelle metriche.
E fu qui che il positivismo divenne ideologia: quando smise di interrogarsi, e iniziò a classificare. Quando la certezza prese il posto del dubbio, e la scienza divenne giustificazione dell’ordine sociale.
Un pensiero che riflette il suo tempo
Per comprendere Lombroso, occorre entrare nel suo secolo, senza indulgere al vizio del giudizio anacronistico. Egli visse in un’epoca segnata da paure e utopie: l’industrializzazione stravolgeva le città, la medicina cercava nuove chiavi interpretative, le scienze umane stavano nascendo. La criminalità urbana, la follia, la devianza femminile, l’omosessualità e la prostituzione erano percepite come problemi urgenti, e la società cercava in ogni modo strumenti per contenerli e comprenderli.
Nel bene e nel male, Lombroso tentò una risposta. Non per condannare, ma per prevenire. Non per odiare, ma per diagnosticare. Il crimine non era più un’infrazione morale, ma una manifestazione biologica da studiare, quasi da curare. In questo senso, fu un precursore della psichiatria forense e della criminologia moderna, seppure viziato da una visione deterministica oggi inaccettabile.
Intuizioni, contraddizioni, eredità
Alcuni suoi lavori oggi ci appaiono goffi, ma altri anticiparono riflessioni che la scienza avrebbe ripreso decenni dopo. Lombroso:
distinse tra criminalità occasionale e congenita;
riconobbe l’influenza dell’ambiente e della povertà;
fu tra i primi a studiare il legame tra follia e creatività (il famoso “Genio e follia”, 1864);
cercò di comprendere la criminalità femminile, pur trattandola con stereotipi paternalistici.
Ma la sua opera venne anche strumentalizzata, specie in contesti politici e razziali, dando origine – seppure indirettamente – a pratiche discriminatorie. L’idea che si possa “vedere il crimine” in un volto, in una razza, in un ceto sociale, ha avuto conseguenze tragiche, che vanno ben oltre le intenzioni dello scienziato torinese.
Lombroso oggi: tra mostra e memoria
Il presente articolo nasce a margine della conferenza “I SERIAL KILLER DELL’800 ITALIANO E LA NASCITA DEL MODUS OPERANDI”, organizzata da LA RETE di Vercelli nell’ambito della mostra “Serial Killer in Mostra – Vittime e assassini da Vercelli al mondo”, con gli interventi dell’antropologo Massimo Centini e dello scrittore Maurizio Roccato.
In quell’incontro è emersa una riflessione attualissima: possiamo davvero giudicare uomini vissuti oltre cent’anni fa con le nostre categorie? Lombroso era figlio del suo tempo. Condannarlo senza comprenderlo è, paradossalmente, ripetere il suo errore: giudicare senza comprendere il contesto.
Conclusione: tra illusione e lungimiranza
Cesare Lombroso non ci ha lasciato verità, ma una domanda che ancora oggi ci interroga:
Quanto siamo davvero liberi di scegliere ciò che siamo?
Il suo sogno – fondare una scienza del crimine – è fallito. Ma il suo desiderio di indagare il male con strumenti razionali, e non con condanne mistiche o morali, resta una traccia indelebile della modernità.
Studiarlo oggi non significa assolverlo, né celebrarlo. Significa riconoscere che la scienza è sempre figlia del suo tempo, e l’uomo – anche il più rigoroso – non smette mai di essere umano.
Marco Mattiuzzi
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