Artisti, intellettuali e il politicamente corretto: la monocromia che spegne il dibattito
C’è un silenzio più assordante di mille polemiche: è quello delle voci che non si odono più. Non perché manchino le parole, ma perché tutte sembrano recitare lo stesso spartito, senza una nota fuori posto. Nei salotti intellettuali, nelle rassegne d’arte, nei dibattiti televisivi, la stragrande maggioranza di chi parla, dipinge, scrive o commenta sembra avere un unico, rassicurante vocabolario: quello del politicamente corretto.
Una lingua che non stimola più il pensiero, ma lo anestetizza. Una lingua che non interroga, ma afferma. Non è tanto un problema di opinioni diverse che si scontrano (quello sarebbe un segnale di vitalità), quanto di una monocromia di toni che soffoca ogni autentico dialogo. Un pensiero unico, spesso intriso di buone intenzioni, che finisce per rendere la cultura uno spazio sterile, dove la provocazione, l’inquietudine, il dubbio non trovano più cittadinanza.
Perché? Forse la spiegazione è più banale – e più amara – di quanto si pensi. Cavalcare l’onda del consenso è più comodo che rischiare il naufragio della solitudine. Dissociarsi dal coro, mettere in discussione il pensiero dominante, oggi, non è solo un atto di coraggio: è un atto di suicidio professionale. Soprattutto per chi vive di visibilità, di inviti a convegni, di contratti editoriali, di finanziamenti pubblici o para-pubblici.
È facile, infatti, notare come le grandi vetrine culturali siano presidiate sempre dagli stessi nomi, sempre dalle stesse sensibilità. Chi osa scostarsi, chi osa proporre una lettura meno allineata, rischia di essere etichettato come reazionario, retrogrado, o peggio ancora “pericoloso”. Le conseguenze non sono sempre clamorose, ma subdole: esclusioni silenziose, porte che si chiudono, occasioni che svaniscono. Nessuna lista di proscrizione, ma un silenzioso algoritmo dell’esclusione.
E così, mentre il politicamente corretto si traveste da “voce dei giusti”, molti intellettuali si travestono da paladini della causa, più per calcolo che per convinzione. Non si tratta tanto di ideali, quanto di sopravvivenza economica e mediatica. Dissenso? Meglio evitarlo. Meglio uniformarsi, lisciare il pelo all’elettorato progressista e ai referenti politici che controllano festival, fondazioni, premi.
In fondo, il sistema è semplice: se vuoi essere invitato, premiato, pubblicato o mandato in onda, devi sapere in anticipo quale copione recitare. Non è censura esplicita, è autocensura preventiva. Non è inquisizione, è opportunismo. Un’invisibile, ma potentissima vendita di sé stessi. Una rinuncia sistematica al dissenso come motore di crescita culturale e sociale.
L’arte, quella vera, quella che nella storia ha avuto il coraggio di dissacrare i miti, di rovesciare i paradigmi, oggi sembra ridotta a un compitino ben eseguito, a una rassicurante eco dei buoni sentimenti dominanti. Non più specchio deformante della società, ma vetrina patinata di ciò che si può o si deve pensare.
Non ci stupiamo, allora, se la cultura sembra sempre più appiattita, prevedibile, noiosamente moralista. Non è solo una questione di idee: è una questione di coraggio. O, forse, di dignità. Senza il coraggio di rischiare l’impopolarità, senza la dignità di rivendicare il diritto al dubbio, l’intellettuale si riduce a un imbonitore, l’artista a un decoratore del consenso.
E intanto il pubblico, il vero pubblico, quello non addestrato a battere le mani a comando, comincia ad annoiarsi. Intuisce l’inganno, percepisce la stanchezza sotto il luccichio delle parole d’ordine. E si allontana. Perché senza conflitto, senza rischio, senza verità scomode, la cultura diventa un mobile da salotto: elegante, ma inutile.
Una domanda rimane sospesa nell’aria, come una sfida, come un monito: che valore ha la libertà di pensiero, se la si sacrifica per una manciata di applausi ben pagati? E soprattutto: chi avrà il coraggio di riprendersela?
Marco Mattiuzzi
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