
Dentro l’abisso. I serial killer tra storia, follia e freddo calcolo
Al Museo Leone di Vercelli, una mostra a cura di La Rete interroga le ombre della mente umana: chi sono davvero i serial killer? E cosa accade quando il male prende forma nel volto dell’ordinario?
Non tutta la violenza è uguale, ma nessuna è accettabile.
Esiste una differenza tra l’omicidio dettato da circostanze estreme – per quanto tragiche o drammatiche – e l’atto seriale, reiterato, pianificato. Non si tratta solo di togliere la vita: è il desiderio di controllare, degradare, spezzare l’altro a rendere questi crimini un’aberrazione assoluta. La mostra allestita presso il Museo Leone di Vercelli, a cura dell’associazione La Rete, non si limita a raccontare fatti. Scava. Con rigore, ma senza anestesia, ci costringe a guardare negli occhi l’oscurità più irriducibile dell’essere umano.
📚 Oltre la cronaca: la domanda sul perché
Perché un uomo dovrebbe attrarre una bambina con la scusa di comprarle delle uova, portarla fuori dal mercato e, dopo averla violentata, tagliarla a pezzi con un seghetto, lasciando le sue parti a gocciolare sangue nei pressi di un torrente?
Perché tenere un ragazzo nudo e imbavagliato nella propria casa per giorni, infliggergli scosse elettriche ai genitali, stuprarlo, sedarlo con farmaci, e infine smembrarne il corpo nella vasca da bagno, come fosse spazzatura?
Sono scene reali. Non vengono da un film horror. Sono azioni compiute da Giorgio Orsolano, detto “il mangiacristiani”, a San Giorgio Canavese nel 1833 e 1835, e da Robert Berdella, artista mancato e torturatore sistematico, a Kansas City negli anni ’80. Due nomi, due storie, due voragini. Come loro, molti altri: italiani, stranieri, vissuti nei secoli più disparati, ma tutti legati da un filo comune fatto di intenzionalità, ripetizione e disumanizzazione dell’altro.

🧠 La maschera dell’ordinario
La mostra lo chiarisce fin dall’inizio: non esiste un unico profilo. Non tutti i serial killer sono folli, né socialmente isolati. Alcuni hanno un lavoro, una moglie, una faccia insospettabile. Non tutti sono uomini, non tutti bianchi, non tutti mossi da pulsioni sessuali.
Quello che li unisce è la ripetizione. Il delitto reiterato nel tempo, con metodo o rituale, quasi mai frutto di impulso, bensì di progettazione. In certi casi, addirittura di godimento estetico. Ci sono quelli che spostano il cadavere per metterlo in scena. Quelli che lo lavano, lo ricompongono, lo mutilano in modo sempre più preciso. Quelli che agiscono non per rabbia, ma per possesso, per dominio, per il brivido del controllo assoluto.
📌 Il caso Pedretti: serialità premoderna, ferocia primitiva
Particolarmente significativo è il caso di Giovanni Battista Pedretti, attivo tra il 1743 e il 1746 nel Vercellese. È uno dei rari esempi di serial killer documentato nell’Italia del Settecento. I suoi delitti sono accompagnati da atti di rapina, uso di armi da fuoco, decapitazioni e mutilazioni. Le sue vittime vengono colpite senza pietà lungo strade e campi, in un’epoca in cui nessuno ancora parlava di “profiling”, ma in cui il male aveva già imparato a camminare da solo.
Il processo è documentato con straordinaria precisione attraverso documenti d’epoca esposti in originale: testimonianze, sentenze, atti d’arresto. La sua fine fu feroce quanto i suoi crimini: tortura della ruota, impiccagione, squartamento. Non per vendetta, ma per dare un volto visibile alla giustizia del tempo.

📉 Capire non vuol dire assolvere
Una sezione della mostra analizza i possibili fattori di rischio: abusi subiti da bambini, traumi non elaborati, disturbi psicologici gravi. Ma con chiarezza: nulla di ciò spiega pienamente l’orrore. Nessuna vittima di violenza diventa automaticamente carnefice. La scelta di infliggere dolore, di reiterare la morte come forma di affermazione personale, resta un atto individuale, spesso lucido, sempre radicale.
🧭 Una mostra che interroga, senza risposte facili
Il merito della mostra è proprio questo: non edulcora, non giustifica, non banalizza. Ma neppure si accontenta del “sono pazzi”. In ogni pannello, si cerca di restituire la complessità del fenomeno, tra psiche, cultura, contesto storico e inclinazione personale. C’è spazio per la riflessione, per la repulsione, e per la consapevolezza che il male, spesso, non è fuori da noi, ma in ciò che ignoriamo, che rimuoviamo, che scegliamo di non vedere.
Marco Mattiuzzi
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