Nel 1847, al celebre Salon di Parigi, un’opera scultorea attirò su di sé una tempesta di critiche e ammirazione. Auguste Clésinger, già noto per la sua maestria scultorea, presentò al pubblico la sua controversa “Femme piquée par un serpent”, un capolavoro che mescolava sensualità e provocazione. La statua, che raffigura una donna in preda a un supposto spasmo causato dal morso di un serpente, si rivelò ben più di una semplice rappresentazione mitologica.
La figura femminile, scolpita in marmo, catturava l’attenzione con una posa contorta e voluttuosa. Il serpente, quasi invisibile e ridotto a un simbolo marginale, appariva come una scusa narrativa: era evidente che l’opera puntava a evocare altro, molto di più. I critici e i visitatori dell’epoca non tardarono a cogliere la sottile provocazione di Clésinger, associando il serpente al simbolo biblico del peccato originale, ma l’intensità della scena trasmetteva un piacere nascosto sotto l’apparente sofferenza.
In quel contesto culturale, dominato dalle rigide convenzioni morali, ciò che maggiormente scatenò le polemiche non fu tanto il soggetto, quanto l’identità della modella. Clésinger scelse di immortalare Apollonie Sabatier, una figura nota nella Parigi bohémienne non solo per la sua bellezza, ma anche per i suoi amori liberi e anticonvenzionali. L’immagine pubblica di Sabatier, descritta dai critici contemporanei come una “belle femme un peu canaille”, alimentò le discussioni sull’opera. Non era solo una statua, ma la celebrazione di una donna viva, vibrante, al di fuori dei canoni sociali.
Tuttavia, ciò che più sorprese fu il livello di dettaglio anatomico della scultura. I visitatori riconobbero persino i segni della cellulite, un fatto che stimolò una quantità infinita di speculazioni. Molti sospettarono che Clésinger avesse utilizzato dei calchi presi direttamente dal corpo di Sabatier, una tecnica già utilizzata da altri scultori dell’epoca, ma spesso criticata per la sua meccanicità e mancanza di vera abilità artistica. Lo stesso Eugène Delacroix, celebre pittore dell’epoca, disprezzò la statua, definendola “un dagherrotipo nella scultura”, suggerendo che l’opera mancasse dell’interpretazione personale che l’arte dovrebbe avere.
Nonostante le critiche, l’opera riscosse un successo senza precedenti, forse anche grazie allo scandalo. La sensualità palpabile (sebbene mai espressa direttamente) di Sabatier fu notata e ricordata dai visitatori. Curiosamente, la modella non fu riconosciuta dal volto idealizzato, ma dalle curve del suo corpo. Questo suggerisce non solo la sua popolarità in certi ambienti parigini, ma anche un’attenzione ai dettagli fisici che andava oltre la pura estetica classica, dimostrando una modernità nelle intenzioni artistiche di Clésinger.
L’interesse suscitato dalla “Femme piquée par un serpent” spinse Clésinger a replicare il successo con una seconda scultura altrettanto provocatoria, la “Baccante distesa”, esposta al Salon del 1848. Anche questa volta l’artista optò per una rappresentazione estrema della femminilità, descritta dal critico Théophile Gautier come “un puro delirio orgiastico”. La statua raffigurava una Menade, figura mitologica, in un estasi di piacere, con una posa scomposta, i capelli disordinati e un corpo che sembrava pulsare di vitalità.
In definitiva, ciò che rese immortali queste opere non fu solo la tecnica raffinata di Clésinger, ma la capacità di catturare un momento sospeso tra l’estasi e il dolore, tra la sensualità e la moralità, spingendo lo spettatore a interrogarsi sul confine tra l’arte e la provocazione. La “Femme piquée par un serpent” resta oggi al Museo d’Orsay come testimonianza non solo di un’epoca, ma di una rivoluzione artistica, un passo audace verso un’interpretazione più libera e sensuale del corpo umano.