Un Risorgimento svelato: tra realtà e mito
La mostra alla Galleria Giannoni affronta il Risorgimento con un taglio tanto storico quanto intimo, superando la retorica celebrativa per mostrare il volto umano – e spesso tragico – di una generazione. Fin dal pannello introduttivo della Sezione 1, si delinea un intento chiaro: interrogare il confine tra l’epica e la verità, tra la gloria dipinta e il dolore inciso nella carne della Storia.
In questo contesto si colloca La morte di Luciano Manara, acquaforte del 1884 circa, che non illustra un mito, ma lo smonta con pudore e compostezza. L’eroe giace morto, ma non c’è trionfo. Solo un letto spoglio, una stanza austera, e una piccola folla di volti addolorati, muti, disarmati di fronte all’assolutezza della fine.

Il corpo come epilogo: l’arte che non alza la voce
Pagliano non ci offre una scena teatrale, né una rappresentazione idealizzata dell’eroismo. Al contrario, ci costringe a stare nel silenzio. Tutto è trattenuto: il dolore, la luce, il gesto. Il corpo di Manara è composto, disteso su un giaciglio improvvisato, il capo reclinato all’indietro. Una spada lo accompagna, simbolo non più di azione, ma di identità perduta.
Nei dettagli incisi con estrema perizia – la bottiglia sul pavimento, i drappeggi, le mani giunte, i volti affranti – Pagliano dà vita a un lutto collettivo che è anche privato. Non ci sono trombe né vessilli. Solo umanità.

Il lutto degli altri: la vera grandezza è nel dolore condiviso
Gli astanti non sono comparse. Sono protagonisti di una reazione emotiva stratificata. L’uomo con le mani sul volto sembra affranto, quasi pietrificato. Il giovane sulla sinistra, forse un compagno d’armi, china lo sguardo in un gesto di intimo rispetto. La donna, col capo velato, guarda in alto, gli occhi grandi e lucidi: forse una madre, una sorella, o semplicemente una testimone della tragedia.
Pagliano lavora per assenza: assenza di retorica, assenza di movimento, assenza di colore (nella tecnica stessa dell’acquaforte). Eppure è proprio in queste assenze che l’opera parla con potenza.

La tecnica come linguaggio etico
Il segno inciso è finemente calibrato, mai ridondante. Le campiture tratteggiate generano ombre che paiono polvere, memoria, tempo. La croce alla parete, solitaria, conferisce una dimensione sacrale alla scena ma senza dogmatismi. Ogni linea rispetta il dolore: nulla invade, nulla aggredisce l’occhio. È un’immagine che chiede silenzio, come se volesse essere guardata “in punta di cuore”.

Oltre il Risorgimento: l’umanesimo della perdita
Sotto la superficie storica, La morte di Luciano Manara racconta qualcosa di universale: la fragilità del corpo, il peso della memoria, l’enigma della morte eroica. L’opera non glorifica, ma umanizza. Non commemora, ma custodisce. È una meditazione sulla fine, ma anche sulla sopravvivenza degli altri – coloro che restano a guardare, a ricordare, a testimoniare.

Un’arte “spudoratamente bella”
Nel pannello promozionale della Galleria si legge: «L’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità». In questo caso, potremmo dire che l’arte, con questa opera, la ripulisce anche dalla polvere della retorica. La bellezza qui è pudica, ma profonda. È la bellezza della verità nuda, della compostezza, del rispetto. Spudoratamente bella solo perché non si nasconde dietro l’enfasi, ma si mostra nella sua sincerità.
Marco Mattiuzzi
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