Nel 1978, quando l’ayatollah Ruhollah Khomeini sbarcò in Francia, accolto nel tranquillo villaggio di Neauphle-le-Château, una certa sinistra francese non seppe resistere al fascino esotico dell’antimperialismo barbuto. Era l’epoca in cui bastava essere contro gli Stati Uniti per guadagnarsi, almeno temporaneamente, il titolo di “rivoluzionario”, anche se portavi con te un progetto di teocrazia repressiva cucito addosso come una seconda pelle.
L’ayatollah, cacciato da Iraq e Turchia, trovò in Francia non solo rifugio ma anche una platea entusiasta. A sostenerlo, seppur con differenti gradi di consapevolezza, furono intellettuali di sinistra, pensatori anti-occidentali, alcuni affascinati dalla sua retorica di liberazione dal giogo americano. Michel Foucault, in particolare, fu tra i più esaltati sostenitori della rivoluzione iraniana, convinto di intravedere in Khomeini una forma inedita di spiritualità politica, capace di opporsi all’egemonia materialista dell’Occidente. Una lettura affascinata, certo, ma anche clamorosamente miope. Perché il progetto politico dell’ayatollah era chiarissimo sin dagli scritti: non una vaga invocazione di giustizia, ma l’istituzione del velayat-e faqih, il governo dei giuristi islamici. Altro che lotta di popolo: era l’embrione di una repubblica teocratica.
Eppure, in quel momento, la sinistra francese preferì non guardare troppo da vicino. L’anticapitalismo aveva trovato un nuovo vessillo, e pazienza se portava il turbante invece della falce e martello. Il nemico principale – l’America, il capitalismo, l’imperialismo occidentale – era sufficientemente incarnato dallo scià Mohammad Reza Pahlavi, visto come burattino di Washington. Khomeini, al confronto, appariva come un saggio asceta sotto un melo che parlava al popolo in cassette audio. Poetico, quasi mistico.
Ma c’era chi, già allora, metteva in guardia. Le femministe iraniane – spesso tacciate di essere “occidentalizzate” o “borghesi” – denunciavano apertamente il rischio che la rivoluzione islamica diventasse una macchina di oppressione per le donne. Parlavano di velo obbligatorio, di shari’a codificata, di una visione patriarcale e repressiva che avrebbe cancellato decenni di faticose conquiste. Foucault, però, come molti altri intellettuali progressisti dell’epoca, le ignorò. Accecato dall’insurrezione come gesto puro, preferì non vedere le contraddizioni.
Emblematica è la sua affermazione, riportata in uno dei suoi articoli per il Corriere della Sera, secondo cui:
“Non ci sarà disuguaglianza tra uomini e donne rispetto ai diritti, ma differenza, poiché esiste una differenza naturale.”
Un’adesione, seppur implicita, a una visione che giustifica la segregazione e la gerarchia in nome della natura. Un concetto che, letto oggi, suona più vicino a un giustificazionismo culturale che a una difesa delle soggettività oppresse.
Janet Afary e Kevin Anderson lo sottolineano con lucidità in un loro articolo: “Foucault romanticizzò il movimento islamico ignorando o liquidando le critiche femministe come occidentali, borghesi o irrilevanti.” È un silenzio pesante, che oggi pesa come una colpa storica.
Poi arrivò il 1° febbraio 1979, e l’ayatollah tornò in Iran. Cinque milioni di persone ad accoglierlo. Ma non ci volle molto perché il volto austero della rivoluzione mostrasse i denti: epurazioni, repressione politica, censura, fustigazioni, esecuzioni pubbliche. Il velo calato sulle donne fu solo il simbolo più visibile di un controllo ideologico feroce. E in quel momento, molti tra gli intellettuali che lo avevano sostenuto tacquero. Foucault in primis, che non ritrattò mai pubblicamente il proprio entusiasmo, ma smise di parlarne.
Cosa ci racconta questa vicenda? Che l’ideologia, quando si fa accecante, sostituisce l’analisi con la suggestione. Che l’odio verso un sistema – il capitalismo americano – può portare a esaltare il suo contrario, anche quando quel contrario si nutre di dogmatismo, intolleranza e negazione dei diritti umani. È il paradosso dell’intellettuale occidentale: sempre pronto a vedere l’oppressione di casa propria, spesso cieco davanti a quella che si annida altrove, purché lontana e ben impacchettata in parole di riscatto.
Il caso Khomeini non fu solo un errore politico. Fu una cantonata morale. La sinistra che sognava la liberazione dei popoli finì per applaudire un progetto che avrebbe calpestato proprio quelle libertà in nome delle quali diceva di battersi. E il peggio è che, a distanza di oltre quarant’anni, quell’abbaglio non è mai stato davvero affrontato. Nessuna vera autocritica, nessuna assunzione di responsabilità. Come se quel sostegno fosse stato solo un fastidioso incidente di percorso, facilmente archiviabile in nome dell’eterna lotta contro l’imperialismo occidentale. E così, tra omissioni e rimozioni, resta il sospetto che quell’errore non sia stato solo momentaneo, ma strutturale. Una debolezza della coscienza critica, travestita da militanza.
Marco Mattiuzzi
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L’espressione “sotto il melo” richiama un’immagine diventata celebre durante l’esilio francese di Khomeini: i media e diversi intellettuali europei lo descrivevano spesso come un uomo austero, silenzioso, seduto nel giardino della casa a Neauphle-le-Château, assorto nei suoi pensieri spirituali sotto un melo o tra gli alberi. Una posa che alimentava il mito del saggio mistico, lontano dal potere e vicino al popolo.
In realtà, quella rappresentazione bucolica fu parte di una narrazione volutamente edulcorata e ingenua – un marketing rivoluzionario ante litteram – che contribuì a distorcere il giudizio politico sul personaggio. Il “melo” è quindi simbolo dell’illusione occidentale: un’immagine tenera, quasi biblica, che mascherava la durezza del disegno teocratico dell’ayatollah.