Era ottobre, una giornata soleggiata. L’aria era fresca, pungente, eppure il sole che illuminava Venezia la rendeva vivace, quasi luminosa. Passeggiavo senza una vera meta, deciso a godermi l’autunno veneziano. Fu per puro caso che mi imbattei nella Fondazione Wilmotte. Una piccola locandina attirò il mio sguardo: Lee Bae – La Maison de la Lune Brûlée. Non sapevo molto dell’artista, ma c’era qualcosa in quel titolo, qualcosa di misterioso e poetico che mi convinse a entrare.
Appena varcata la soglia, mi trovai immerso in un’atmosfera quasi sacra. La prima cosa che mi colpì fu la proiezione di un video: fiamme alte che divoravano una struttura di legno. Era il rituale coreano della daljip teugi, un’antica tradizione che celebrava la rinascita con l’arrivo della luna piena. Le fiamme sembravano danzare, creando un’energia palpabile anche attraverso lo schermo. Mi resi conto che quella non era una semplice mostra d’arte; era una porta verso qualcosa di più profondo, un viaggio nel tempo e nelle tradizioni di un altro mondo
Man mano che avanzavo, lo spazio intorno a me si faceva sempre più silenzioso. Tutto era rivestito di una carta bianca e luminosa che rifletteva la luce autunnale che filtrava dalle finestre. Sul pavimento, enormi pennellate di carbone tracciavano percorsi irregolari, come cicatrici su una pelle immacolata. Ogni segno sembrava raccontare una storia: quella del fuoco, della combustione, della trasformazione. Era come se l’artista avesse intrappolato il movimento delle fiamme nel carbone stesso. Non potevo fare a meno di pensare al legame tra distruzione e creazione. Quelle pennellate, così potenti e definitive, erano il risultato di un rito antico che ancora oggi, a migliaia di chilometri di distanza, trovava il suo eco in quella stanza
Il centro della mostra, però, era un monolite nero, Meok (2024). Alto più di quattro metri, la sua superficie di granito sembrava assorbire tutta la luce della stanza, lasciandola intrappolata nel suo cuore di pietra. Mi avvicinai per toccarlo, quasi aspettandomi che emanasse calore, ma era freddo e imponente. In quel momento mi resi conto di quanto fosse importante la presenza del silenzio e del vuoto. Il monolite non era solo una scultura, era un invito a fermarsi, a riflettere. A farmi domande che non avevano bisogno di risposte immediate
Proseguendo lungo il percorso, mi fermai davanti a una grande tela ricoperta di frammenti di carbone, Issu du Feu (2024). Ogni pezzetto sembrava posato con una cura maniacale, come se l’artista stesse cercando di rimettere insieme ciò che il fuoco aveva distrutto. Era un mosaico di luce e ombra, un riflesso di noi stessi, delle nostre esperienze, di ciò che perdiamo e di ciò che cerchiamo di ricostruire. Mi sentii in sintonia con quell’opera, come se anch’io, in quel momento, stessi cercando di ricomporre i pezzi di qualcosa che avevo perso lungo la strada
Quando infine uscii dalla mostra, il sole di ottobre stava iniziando a calare, tingendo Venezia di una luce dorata. Mi fermai un attimo, respirando a pieni polmoni l’aria fresca. Ero arrivato in quella mostra per caso, ma me ne andavo con la sensazione di aver trovato qualcosa di inaspettato. Non solo un’esperienza artistica, ma un momento di riflessione su ciò che significa rinnovarsi, bruciare il vecchio per fare spazio al nuovo. Mentre attraversavo i canali, il pensiero mi accompagnava: forse, come la luna che si rinnova ogni mese, anche noi abbiamo bisogno di bruciare le nostre case interiori, ogni tanto, per rinascere più luminosi
Marco Mattiuzzi
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