Diario di una serata: “Tavola tavola, chiodo chiodo” al Teatro Civico di Vercelli
Ore 20:40
Attraverso il portale del Teatro Civico di Vercelli, un luogo che odora di legno antico e polvere creativa, di quegli spazi dove il tempo sembra sospeso in un soffio di applausi passati. Mi avvio verso il mio posto in prima fila, determinato a gustarmi al meglio la rappresentazione. Il pubblico, assorto e curioso, si raccoglie come un fiume silenzioso attorno a un’unica promessa: la voce di Eduardo De Filippo. Ma a guidarci, questa sera, non sarà lui in persona, bensì un interprete visionario, Lino Musella, che del Maestro ha scelto le pieghe meno note, i respiri fuori scena, le parole scritte più che dette.
Ore 21:05
Il sipario si apre, in piacevole orario. Ma non è un palco che vediamo: è un cantiere. Tavole di legno e chiodi, simbolo di un lavoro manuale che non è solo metafora, ma concreto omaggio al teatro San Ferdinando di Napoli, rifondato proprio da Eduardo e costruito, tavola dopo tavola, chiodo dopo chiodo, da uomini come Peppino Mercurio, macchinista e capomastro del suo sogno. Il titolo della pièce diventa così un mantra, una celebrazione di quella fatica umile e persistente che trasforma la materia grezza in arte viva.
Musella appare, ed è subito Eduardo: non il monumento, ma l’uomo. Un Eduardo che scrive lettere furenti al ministro Tupini, che combatte per il teatro come fosse un guerriero armato di penna e sarcasmo. Con un’interpretazione ironica e dolorosamente sincera, Musella ci restituisce un uomo impegnato a difendere l’arte contro la miopia delle istituzioni, contro il potere cieco che – ieri come oggi – considera la cultura un orpello superfluo anziché una necessità primaria.
Le parole di Eduardo risuonano attuali, quasi profetiche. Nato in epoca pandemica, questo spettacolo sembra il frutto di una meditazione sul nostro tempo, in cui il teatro – già fragile – ha rischiato di scomparire. “Tavola tavola, chiodo chiodo” diventa così un grido di resistenza, un’invocazione a non abbandonare l’arte in un mondo che la baratta con la superficialità. E mentre Musella recita, la sala trattiene il fiato, consapevole che quelle parole, vecchie di sessant’anni, ci appartengono più che mai.
Ore 22:40
Si chiude con un lungo applauso. Ma dentro di me, la voce di Eduardo non si spegne. Penso al suo sogno di un teatro come scuola di vita, al suo disincanto verso chi governa senza anima. È un’amarezza che pesa, quella di sapere che spesso la volontà di fare cultura si scontra con l’ignoranza di chi, anziché alimentarla, la soffoca. È come vedere una pianta crescere tra le crepe dell’asfalto: la sua forza è commovente, ma il contesto la rende un miracolo, anziché una normalità.
Rientro nella notte ormai fredda di Vercelli. Cammino piano, come per trattenere il sapore di ciò che ho visto. Lino Musella non è stato solo un attore, è stato un ponte: ci ha condotti dentro Eduardo, ma anche dentro noi stessi. E mentre torno verso casa, con le luci del teatro che si spengono alle spalle, non posso che sentire un’unica certezza: senza tavole e senza chiodi, senza fatica e passione, il teatro non esisterebbe. Ma forse nemmeno noi.
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