Nella storia dell’arte, il paesaggio ha spesso rappresentato uno sfondo apparentemente neutro, uno spazio in cui l’occhio si perde, romantizzando l’idea di natura incontaminata e selvaggia. Tuttavia, la mostra Tierra Virgen ci costringe a ripensare completamente questa visione. Attraverso un linguaggio visivo potente e testi critici, l’esposizione affronta il tema della colonizzazione e dello sfruttamento della terra, mettendo in discussione secoli di rappresentazioni che hanno esaltato una natura “vergine” in attesa di essere civilizzata.
Il titolo stesso della mostra, Tierra Virgen, è una provocazione: ci riporta immediatamente all’ideologia coloniale che vedeva le Americhe, l’Africa e altre terre come spazi vuoti, senza storia né cultura, da occupare e sfruttare. In questa narrativa, il paesaggio non è solo un luogo fisico, ma anche un simbolo dell’appropriazione violenta di territori e culture. Il testo introduttivo all’esposizione sottolinea come la colonizzazione europea non avesse l’obiettivo di “mantenere la vita umana”, ma piuttosto quello di sfruttare commercialmente la terra, annullando la possibilità di esistere di un mondo diverso, un mondo non europeo.
Questo concetto si riflette nelle opere esposte, che reinterpretano paesaggi colonizzati da artisti europei e statunitensi. Viste idilliache e romantiche, tipiche della pittura del XIX secolo, vengono qui sovrapposte con testi contemporanei che ne smontano la neutralità apparente, invitandoci a guardare oltre la bellezza superficiale. Le parole del filosofo e attivista indigeno Ailton Krenak, ad esempio, si intrecciano con quelle di intellettuali ecofemministi come Françoise Vergès e Nancy Leys Stepan, creando un dialogo critico tra visione storica e presente. Krenak denuncia la spoliazione della terra da parte della società capitalistica, che ha visto nella natura non una madre da rispettare, ma una risorsa da sfruttare.
“Tierra Virgen III (Verso del Río Magdalena)” è una delle opere centrali della mostra, che utilizza ossido di ferro e falso argento su tela per evocare un senso di decadimento e artificialità. Il paesaggio rappresentato sembra un’eco lontana di un mondo ormai alterato e sfruttato. In quest’opera, la pittura paesaggistica perde la sua aura di rappresentazione estetica neutrale e diventa veicolo di critica sociale e storica. La scrittura sovrapposta alla tela richiama il concetto di sovrascrittura di narrazioni: quelle coloniali che trasformarono la terra in merce e quelle moderne che cercano di riappropriarsi dei territori attraverso nuovi significati.
Nell’opera “Tierra Virgen IV (Verso del Río Magdalena)”, Krenak ci pone una domanda fondamentale: come possiamo riconoscere un luogo di contatto tra mondi che, originariamente interconnessi, oggi sono profondamente separati? Il fiume Magdalena, metafora del divario tra chi viveva in simbiosi con la natura e chi oggi la consuma come risorsa, diventa il simbolo di una frattura profonda tra mondi un tempo sovrapposti.
“El marco del paisaje VI (Poncho sobre paisaje conquistado)” offre un’immagine simbolica potente. Il poncho, fatto di lana di pecora e alpaca, circonda un paesaggio dipinto con una lacerazione centrale che lascia intravedere la scena sottostante. L’uso del poncho, simbolo culturale e protettivo indigeno, avvolge la terra conquistata, ma la frattura nel tessuto evoca una ferita aperta, simbolo della violenza coloniale. Qui, il paesaggio non può più essere osservato senza riflettere sulle sue cicatrici storiche.
Questa mostra è una critica decisa alla concezione capitalistica e coloniale della terra come risorsa da sfruttare. Le opere, realizzate con materiali che evocano tanto il naturale quanto l’artificiale, immergono lo spettatore in un mondo in cui la natura ha perso la sua “verginità” sotto il peso della storia. Tierra Virgen ci invita a riflettere oltre la superficie dei paesaggi romantici e a riconoscere le storie invisibili di sfruttamento e resistenza che si celano dietro di essi.
Gabinete de la Extinción: La catalogazione della natura e il suo sfruttamento
La seconda sezione, Gabinete de la Extinción, si addentra nelle dinamiche di sfruttamento e accumulazione che hanno caratterizzato le spedizioni scientifiche e museali dal XVIII secolo. Le collezioni museali moderne, eredi di queste esplorazioni coloniali, non hanno solo raccolto campioni di flora e fauna, ma hanno alimentato l’estrazione di risorse umane e naturali.
Il Gabinete de la Extinción connette il colonialismo storico all’estrattivismo moderno, mostrando le “ricchezze” delle spedizioni botaniche europee con le loro conseguenze ecologiche. Le opere presentano pitture che ritraggono la tassonomia della natura coloniale, con un occhio alla simbiosi tra natura e lavoro umano. Una nota critica riguarda l’abbandono delle aree rurali in Europa, come la “España vaciada”, emblema della spoliazione sociale ed economica che ha reso precaria la vita in aree ormai desertificate.
Nell’opera “Extinción IX (La doble cara de la Amazonía)”, del 2024, il tema si sposta sull’Amazzonia. Qui, si evidenzia come lo sfruttamento intensivo abbia ridotto il territorio a un campo di battaglia tra risorse naturali e sovrasfruttamento. Le pitture mostrano un paesaggio in crisi, un mondo che sembra condannato a essere consumato fino alla sua scomparsa.
Gabinete del Racismo Ilustrado: L’eredità della scienza coloniale
In Gabinete del Racismo Ilustrado, la mostra affronta il concetto di razza attraverso l’evoluzione del pensiero scientifico e museale. I metodi di classificazione utilizzati durante la colonizzazione hanno alimentato il razzismo sistematico, che è poi stato cristallizzato nelle mostre etnografiche dei musei occidentali. La mostra si interroga su come la scienza e l’antropologia abbiano fornito le basi per discriminazioni razziali e superiorità gerarchiche che persistono ancora oggi.
Le opere sovvertono i simboli della classificazione scientifica coloniale, mostrando i corpi delle persone razzializzate come meri oggetti di studio. Questi corpi, che sono stati sistematicamente rappresentati come inferiori, diventano qui protagonisti di un nuovo racconto visivo.
Máscaras Mestizas: Rituali di resistenza e ibridazione culturale
In Máscaras Mestizas, il tema del corpo e dell’identità entra in dialogo con le rappresentazioni coloniali della sessualità e del genere. La pittura coloniale, nel suo tentativo di consolidare l’ideologia del “mestizaje” e il binarismo di genere, ha violato i corpi delle donne indigene e mascherato ogni forma di dissidenza sessuale.
Questa sala esplora le maschere come dispositivi rituali che permettono il passaggio tra il conosciuto e l’ignoto, simboli di un ordine culturale alterato. Qui, il “diverso” non è l’altro, ma qualcosa di nascosto dentro di noi, che emerge attraverso il rito e la performance.
Retablo de la Naturaleza Moribunda: Una riflessione sul consumo e la decadenza
Infine, Retablo de la Naturaleza Moribunda si focalizza sull’appropriazione e mercificazione della natura e degli oggetti culturali. I musei, spesso eredi del saccheggio coloniale, espongono “tesori” che, fuori dal loro contesto, rappresentano l’opulenza e il potere economico delle società occidentali. Attraverso una narrazione visiva che richiama il retablo religioso, questa sezione pone una riflessione critica sulle strutture di potere che governano la nostra relazione con il consumo e l’ecologia.
Le piante, i frutti e gli animali rappresentati nelle opere diventano simboli della sovrapproduzione e del collasso ecologico imminente, un leimotiv del capitalismo tardivo e delle sue disastrose conseguenze ambientali.
Pinacoteca Migrante
Conclude questo percorso critico con una riflessione sul concetto stesso di museo. L’artista peruviano-spagnola Sandra Gamarra Heshiki sovverte la narrativa museale storica, proponendo una Pinacoteca Migrante che esamina come i migranti e le persone colonizzate siano state sistematicamente escluse dalla narrazione ufficiale. Le opere finali, come El Jardín Migrante, sono spazi di resistenza e restituzione, in cui si propone una nuova visione istituzionale che abbracci la diversità e la sostenibilità.
Riflessione finale
Attraverso le diverse sezioni di questa esposizione, si dispiega un viaggio che non è solo fisico o visivo, ma profondamente intellettuale ed emotivo. La Biennale di Venezia 2024, con il suo titolo “Stranieri ovunque / Foreigners everywhere”, invita a riflettere su cosa significhi essere “stranieri”, non solo in senso geografico, ma anche storico e culturale. Ci troviamo a dover decostruire narrazioni che per secoli hanno definito l’altro, la terra, il paesaggio e le risorse come oggetti da dominare, classificare e sfruttare.
Ogni sala, ogni opera esposta ci ricorda che la storia non è neutrale, che ciò che vediamo e percepiamo oggi è frutto di un’eredità di violenze e appropriazioni. Questi artisti, con la loro capacità di intrecciare critica sociale, arte e storia, ci spingono a interrogare il nostro ruolo in questa rete di narrazioni globali. Siamo tutti, in qualche misura, partecipanti e complici di una cultura che ancora oggi fatica a liberarsi dalle logiche coloniali, patriarcali e capitalistiche che hanno plasmato il mondo moderno.
Ma c’è anche un messaggio di speranza e di responsabilità. Attraverso l’arte, emerge la possibilità di riconoscere queste storie nascoste, di dare voce a chi è stato silenziato, di rendere visibile l’invisibile. Opere come Tierra Virgen o Pinacoteca Migrante mostrano come l’arte possa essere un atto di resistenza, una sfida contro la dimenticanza, una chiamata a reimmaginare il nostro rapporto con la terra e con gli altri. In questo senso, essere “stranieri” diventa un modo per decentrarsi, per mettersi in ascolto, per aprire nuovi spazi di dialogo e comprensione.
La Biennale 2024 non è solo una celebrazione dell’arte contemporanea; è un potente promemoria di come l’arte possa (e debba) svolgere un ruolo centrale nella costruzione di un futuro più inclusivo, sostenibile e giusto. Come spettatori, usciamo trasformati, con la consapevolezza che il cambiamento è possibile, ma richiede un impegno collettivo e profondo verso la riconciliazione con la nostra storia e il nostro pianeta.
Marco Mattiuzzi
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